Intervista

Titolo

Progettare interfacce a supporto dell’interpretazione contestuale e di conversazioni aperte con gli utenti

Autore

Marialaura Ghidini 

Data

18/10/2021

Titolo del Progetto

Parole Chiave

Testo

Marialaura Ghidini: Vorrei iniziare chiedendoti un pò della genealogia del tuo lavoro. Cosa ti ha portato a esplorare l’editoria e gli archivi online?

Lozana Rossenova: Non è stato un percorso molto lineare, ma è iniziato con un interesse nell’arte e nel design che mi ha portata a proseguire i miei studi universitari in modo che unissero la pratica artistica, la storia dell’arte e il design. Durante la mia laurea mi sono particolarmente interessata al design dell’informazione e dei sistemi — volevo studiare i dettagli tipografici che ci permettono di dare un senso alle informazioni visive: tabelle, indici, note a piè di pagina, marginalia. Il mio master (all’Università di Reading) combinava la tipografia e la comunicazione tradizionali con pratiche più all’avanguardia. Per esempio, ho studiato grafica editoriale con Fraser Muggeridge e John Morgan, grafici che lavorano esclusivamente con clienti nel campo dell’arte e della cultura. Ho scritto una tesi sulla progettazione grafica di cataloghi d’arte contemporanea sotto la supervisione della dottoressa Ruth Blacksell, la cui ricerca si focalizza sui modi in cui la tipografia e diversi formati editoriali sono stati usati nella letteratura sperimentale degli anni ’60 e ’70, nella performance e nell’arte concettuale, in particolare per quanto riguarda il passaggio da formati fissi a formati più fluidi e soggettivi. La ricerca della dottoressa Blacksell mi ha introdotto alla rivista Aspen, al Whole Earth Catalog, ad Art-Language, tra gli altri; esempi in cui i formati e le operazioni legate alla pubblicazione di un documento erano aperte, iterative e coinvolgevano i lettori in modi (inter)attivi. È stato molto influente anche il lavoro di Stuart Bailey, un altro ex studente di Reading, con Dot Dot Dot, Dexter Sinister, e più tardi The Serving Library, che è un progetto definito come “un archivio che pubblica, e un editore che archivia”. Stavo cercando di capire e di sviluppare sistemi di grafica complessi, ma attraverso la prospettiva del lavoro artistico, delle modalità di circolazione dell’informazione, e dell’idea di un lettore ‘attivo’ invece che un consumatore passivo di informazioni. Ho fatto alcuni esperimenti di editoria fai da te durante il mio Master che hanno dato vita a un progetto collaborativo intitolato Inland Editions e alla pubblicazione di una vasta gamma di saggi sulle biblioteche e sugli spazi alternativi di biblioteche e archivi. 

Questo avvenne intorno al 2011-12, il periodo in cui sono usciti gli iPad, i Kindle erano incredibilmente popolari, e i libri digitali erano sul radar della maggior parte degli editori e dei grafici. Così, dopo il mio master, ho fatto un sacco di pubblicazioni digitali per editori commerciali come Taschen, o vari clienti nel modo dell’educazione e non-profit. Mi stavo interessando sempre di più all’intersezione tra l’editoria e l’accesso all’informazione digitale, ma ero scettica di essere troppo legata ai dispositivi… Preferivo progettare per quelli che all’epoca venivano chiamati ‘HTML-reader’ — essenzialmente siti web accessibili, dove le pubblicazioni possono essere lette e sfogliate al di fuori dei confini di un file PDF o Epub. Il rapido successo e tracollo (nel giro di pochi anni) di alcune costose creazioni iPad prodotte da alcuni degli editori commerciali che seguivo, o con cui lavoravo, mi ha dato un primo assaggio delle conseguenze dell’obsolescenza tecnica e delle dipendenze della tecnologia. Uno degli ultimi lavori di design che ho fatto prima di tornare a scuola per perseguire il mio dottorato era un archivio digitale per un grande programma di ricerca alla LSE (London School of Economics). Il progetto fu molto entusiasmante, poiché conteneva un’ampia diversità di fonti d’informazione — da giornali e libri da tavolo a complesse visualizzazioni interattive di dati. Mi ha permesso di esplorare come le piattaforme web che sono indipendenti da dispositivi possano rendere le informazioni più accessibili, e mi ha mostrato i vantaggi di prendere in considerazione l’archiviazione digitale durante la produzione e la pubblicazione delle informazioni, e non solo relegarla come un qualcosa a posteriori. Inoltre il progetto ha evidenziato i limiti del voler cercare di risolvere complessi problemi di design dell’informazione entro i confini di un contratto commerciale. 

All’epoca, nel 2016, trovai un annuncio per un posto di ricercatore di dottorato con Rhizome e decisi di fare domanda. Quel progetto fu istituito come una collaborazione tra Rhizome e il Centre for the Study of the Networked Image della London South Bank University, e si focalizzava sulla ri-progettazione dell’archivio online di net art di Rhizome. All’inizio poteva sembrare una forzatura passare da una carriera incentrata soprattutto sulla grafica e le pubblicazioni, anche se digitali, a una ricerca intorno a un archivio online molto particolare, l’ArtBase. Ma a ben guardare, c’erano molte intersezioni e punti di frizione produttiva, tra il mondo dell’editoria — e in particolare l’editoria come pratica artistica — e l’archivio online della net art. E non ultimo c’era il fatto che, sebbene la net art sia emersa come movimento artistico negli anni ’90, ha una lunga serie di connessioni con precedenti pratiche artistiche d’avanguardia e anti-istituzionali legate alla performance e all’editoria — pratiche interessate alla circolazione e al “rendere pubblico” vari tipi di informazioni visive, verbali o testuali. Penso che mi fermerò qui, dato che sono certa che durante il resto di questa conversazione avremo la possibilità di tracciare ulteriormente i nodi comuni tra i mondi dell’editoria e del design da un lato, e gli archivi, le reti e il software dall’altro.

M.G.: Ne sono sicura! Per il tuo dottorato, hai lavorato molto con la conservazione dell’arte digitale. A questo proposito, m’interessa il tuo approccio di designer e il fatto che vedi la conservazione (e quindi l’archiviazione) come un atto non solo tecnico, ma sociale e collettivo; ponendo l’accento sull’idea di contesto piuttosto che di contenuto. Quale ruolo giocano gli aspetti sociali e l’impegno/sapere collettivo nel tuo lavoro?

L.R.: Grazie, è una bella domanda. Con la mia ricerca di dottorato, ho cercato di affrontare la questione dell’accesso dell’utente negli archivi nativi-digitali, e più specificamente il come sostenere un’interazione consapevole dell’utente e un potenziale di intervento in un archivio, attraverso il design applicato. 

Qui la net art e le sue specifiche modalità di funzionamento, così come la storia organizzativa dell’ArtBase, hanno ispirato e influenzato il mio approccio progettuale e la mia metodologia. Per essere performata ed esperita, la net art dipende dagli allineamenti tra gli ambienti hardware e software, dai protocolli di rete e, soprattutto, da un utente attivo: senza l’interazione dell’utente, le opere non possono essere eseguite. Quindi, per conservare le opere di net art nell’ArtBase, Rhizome ha sviluppato il concetto di reperformance-as-preservation [riperformance-come-conservazione]. Questo paradigma posiziona la figura dell’utente come centrale per la preservazione delle opere e il contesto sociale che le circonda, il che si estende oltre le attività interne dell’istituzione, il personale che si occupa dell’archivio e persino gli artisti. Qui, la conservazione della memoria sociale e un sapere contestuale sulla manutenzione e l’uso di un specifico pezzo di software, o sull’esecuzione di una specifica interazione all’interno di una particolare interfaccia grafica, diventano importanti processi che fanno parte del tessuto sociale dell’archivio e riguardano varie comunità di lavoro — inclusi sia i soggetti interessati all’interno che gli utenti esterni. Ma la maggior parte dei sistemi di archiviazione non hanno la capacità di documentare in modo significativo questo tipo di memoria o di sapere collettivo attraverso i propri modelli di dati, e mancano anche di strategie visive per visualizzarli in un’interfaccia dell’utente.

Nella mia tesi di dottorato, sostengo che concepire l’archivio come una rete di relazioni socio-tecniche è produttivo non solo dal punto di vista delle scienze sociali, degli studi scientifici e tecnologici (STS), o della teoria critica dell’archivo, ma anche del lavoro di progettazione d’infrastrutture e interfacce di archivio. Ritengo che il processo della progettazione debba essere inteso non (solo) come un atto di traduzione guidato da esperti da un mondo sociale a un altro — un termine spesso usato nel campo del design d’interazione uomo-computer (HCI) e dell’esperienza degli utenti (UX) che indica la trasformazione dei requisiti dei soggetti coinvolti in artefatti disegnati per soddisfare anche le aspettative degli utenti — ma piuttosto come un atto di costruzione di reti di connessioni che facilitano le relazioni many-to-many [molti-a-molti]. Per concretizzare questo punto, l’idea centrale del quadro metodologico che ho sviluppato nel lavoro pratico del mio dottorato è che, oltre agli aspetti tecnici e infrastrutturali (il modello dei dati, il database e l’interfaccia utente), il lavoro di design ha bisogno di prendere in considerazione specialmente la dimensione processuale, cioè il contesto sociale dell’archivio come rete — i processi di classificazione, manutenzione e uso. E inoltre, le dimensioni tecniche sono sempre già gestite da e operano sui processi sociali. Il modo in cui diverse comunità di lavoro e ricerca classificano specifici concetti o materiali in metadati descrittivi e contestuali, svolgono attività di manutenzione o eseguono interazioni con l’utente nell’archivio, influenzano la progettazione dell’interfaccia, la scelta del database e la struttura del modello di dati. 

Infine, la progettazione degli aspetti tecnici e infrastrutturali dell’archivio mira anche a rendere i processi sociali più visibili e leggibili per tutti gli utenti e i soggetti interni che sono coinvolti nella rete dell’archivio, e quindi a aprire possibilità per un modello di conservazione più collaborativo e collettivo.

M.G.: La tua relazione Design Landscape: Online Collection Interfaces (2020) propone un’analisi dettagliata del modo in cui gli spettatori/utenti interagiscono con varie interfacce di mostre online. In che modo lo studio delle interfacce ci aiuta a capire il nostro paesaggio digitale?

L.R. : Se posso riprendere il filo della risposta precedente — penso che studiare le interfacce ci aiuti a capire quanto, al momento, la maggioranza delle forme d’interazione digitale siano limitate e chiuse al potenziale d’intervento o collaborazione, il che equivale a un paesaggio digitale molto omogeneo… omogeneo non in termini visivi — penso che ci sia ancora una grande varietà di progettazione visiva interessante (anche tenendo conto del predominio di certe tendenze attuali, come le illustrazioni colorate e spumeggianti che abbelliscono la maggior parte dei siti web delle startup tecnologiche); ma le possibilità d’interazioni più complesse e meno prescrittive sono piuttosto scarse all’interno di gran parte dei prodotti digitali. 

Bisogna anche tenere in considerazione che nella mia ricerca ho esaminato principalmente esempi di design digitale, non di arte (in contesti esplicitamente guidati dall’artista c’è più spazio per la sperimentazione). Le interfacce che ho preso a campione sono state ovviamente progettate all’interno di contesti specifici e con un particolare pubblico in mente, ma la progettazione di questi artefatti è anche ciò che tende a stabilire le aspettative degli utenti. Per esempio, nel paesaggio digitale, più s’incontrano interfacce con barre di “ricerca” molto grandi, più questi incontri stabiliscono certe aspettative — cioè che le interfacce di archivi e collezioni devono essere principalmente focalizzate sulle interazioni di “ricerca” e che, in quei contesti, l’utente ideale sta sempre cercando qualcosa di specifico. Anche se questo presupposto può non essere sempre vero, le interfacce digitali rafforzano certi presupposti (riguardo agli utenti e agli scenari d’uso) rispetto ad altri, e nel tempo questo porta a interazioni standardizzate che spostano l’intero panorama digitale in certe direzioni, sia che pensiamo sia la direzione giusta o meno. Così lo studio delle interfacce digitali, secondo me, può essere usato come una sorta di “barometro” per lo stato generale dei paesaggi digitali. 

M.G.: Quali sono i tipi di interazioni che hai incontrato, e cosa dicono in merito agli standard di design, o magari alla storia del loro sviluppo?

L.R.: Nella maggior parte delle interfacce ho riscontrato diversi tratti comuni: le funzioni prominenti di barra di ricerca, cronologie o altre forme di visualizzazioni di dati cliccabili, così come il modello di design più onnipresente nelle interfacce di collezioni digitali che è noto come quello della “panoramica e anteprima”. Quest’ultimo è essenzialmente un modo per descrivere la fin troppo familiare griglia di anteprime in miniatura [thumbnails]. Le pagine a griglia presentano agli utenti una panoramica dell’intera collezione, e le anteprime (o le miniature di opere) danno agli utenti un rapido indizio visivo su cosa aspettarsi prima di cliccare su un’opera d’arte specifica (cioè un elemento della collezione). Le panoramiche e le anteprime erano comuni sia alle interfacce di collezioni che di mostre. Nella mia relazione, li descrivo come un formato di parete di galleria nativa digitale, e nella mia tesi elaboro quest’idea un po’ di più. Sostengo che, tipicamente, le interfacce delle collezioni online si basano su metafore del mondo sociale delle istituzioni fisiche, come la metafora delle pagine web come gallerie (virtuali) e le griglie di miniature come pareti di galleria, dove i file di immagini statiche sono presentati per la contemplazione dei visitatori (non degli utenti). Nell’esaminare esempi di mostre online, ho anche scoperto due forme comuni a cui, nella relazione, mi riferisco con i termini “l’approccio white cube” o “l’ambiente virtuale della galleria 3D”. L’approccio white cube utilizzava impaginazioni a griglia, grandi quantità di spazio bianco e immagini piatte affettive (cioè screenshot rappresentativi) come segnaposti per le opere d’arte, che erano poi solitamente disponibili per essere esplorate cliccando su queste anteprime. Anche gli ambienti 3D hanno cercato di ricreare l’esperienza del white cube, ma con l’aggiunta dell’interazione intorno a uno spazio virtuale 3D nel browser dell’utente. Anche nello spazio 3D, tuttavia, la rappresentazione delle opere d’arte rimane appiattita su immagini 2D, o al massimo su video.

Questi brevi esempi evidenziano un aspetto chiave nello sviluppo di standard di design, vale a dire l’uso di metafore collegate al mondo fisico (queste sono facili da individuare ovunque sulla scrivania del computer e nel sistema di file/cartelle che usiamo nei sistemi operativi contemporanei). E ciò vale anche per lo sviluppo dell’uso della metafora nel design, che è passata da un’applicazione più astratta a una più letterale (ad esempio, da pareti di anteprime di opere bidimensionali ad ambienti in 3D), con il progressivo miglioramento storico dell’hardware (schede grafiche) e del software (capacità dei browser). Da un lato, non c’è nulla di essenzialmente sbagliato in questo — le metafore sono utili per creare ambienti familiari che gli utenti afferrano più facilmente. Ma le metafore usate nella maggior parte delle interfacce delle collezioni online (e i sottostanti sistemi di gestione dei contenuti) facilitano un’esperienza lineare e statica, che esclude le pratiche non standardizzate che si estendono oltre l’apertura di un’anteprima di un’opera in miniatura per visualizzare, per esempio, la riproduzione digitale ad alta risoluzione di un dipinto. Per lo più, le metafore di design che si trovano nelle interfacce di collezioni non possono rappresentare i processi coinvolti nella conservazione e presentazione delle caratteristiche interattive e di rete della net art.

M.G.: Ci sono esempi significativi di progetti che secondo te interferiscono/sovvertono il modo in cui tradizionalmente interagiamo con le opere d’arte online che sono emersi dalla tua ricerca? 

L.R.: Se adottiamo una visione più ampia della rappresentazione dell’arte online (non della net art in particolare), penso che la nozione di generous interfaces [interfacce generose], cioè interfacce che offrono agli utenti diversi modi di navigare e non solo di cercare nelle collezioni, sia stata un modo importante d’interferire negli approcci più tradizionali dell’interazione con le collezioni. Il concetto di generosità è stato originariamente elaborato dal designer e accademico Mitchell Whitelaw, e ulteriori sviluppi significativi di tale concetto si possono vedere nel lavoro di influenti designer e ricercatori come George Oates, Florian Kräutli e Olivia Vane. Le generous interfaces tendono a presentare diverse forme di visualizzazione di dati che non solo mettono in evidenza nuovi modi per gli utenti di sfogliare e scoprire opere nelle collezioni online, ma possono anche rivelare nuove connessioni tra gli oggetti, o metadati contestuali correlati, quali persone, istituzioni, movimenti artistici, ecc. L’adozione dei dati collegati a fianco della visualizzazione di dati in progetti come Connect Vermeer (che è incluso nella mia relazione) forniscono interessanti opportunità per estendere l’approccio generoso oltre il lato del client (cioè l’esecuzione di un codice interattivo, che avviene sul momento, nel browser dell’utente sulla base delle interazioni dell’utente stesso), e per codificare varie interconnessioni di dati sin dal livello del modello dati e di database. Quest’ultimo apre ulteriori opportunità per collegare i dati attraverso vari silos (di siti web istituzionali e pagine web individuali) ed estendere le capacità di un utente di accedere alle informazioni riguardanti l’arte provenienti da diverse fonti attraverso un’unica interfaccia. Tuttavia, tutto questo viene ancora applicato solo a collezioni di materiale ampiamente digitalizzato piuttosto che all’arte nativa-digitale. 

Per quanto riguarda la rappresentazione di opere di net art, alcuni degli esempi più significativi del corpo di lavoro che ho ricercato includono una precoce mostra online, e ora in gran parte defunta, intitolata Kingdom of Piracy. Curata da Shu Lea Cheang, Armin Medosch e Yukiko Shikata, la mostra fu originariamente commissionata dall’Acer Digital Art Center [ADAC] di Taiwan per ArtFuture 2002. Questo progetto ha re-immaginato la presentazione di opere in un “mare” blu stilizzato, dove lo scorrimento verticale permette agli utenti di scoprire (e qui sto citando il concetto curatoriale del progetto) “link, oggetti, idee, software, progetti commissionati ad artisti, testi critici ed eventi mediatici in streaming online”. Nonostante la maggior parte dei link non siano più accessibili, la mostra e la nota curatoriale rimangono esempi rilevanti e toccanti sia delle questioni che la net art affronta (come l’economia dell’informazione sul web, la proprietà intellettuale e l’autorialità) sia di come queste questioni sfidino e sovvertano le aspettative degli utenti. 

Un altro esempio importante per la mia ricerca è stata la mostra Net Art Anthology di Rhizome. Quando ho iniziato la mia ricerca, la mostra era già stata in gran parte pianificata, così ho potuto assistere al suo svolgersi nel corso di due anni e mezzo. L’aspetto più significativo della mostra — dal punto di vista del design d’interazione — è stato l’uso dell’emulazione attraverso il browser per esporre opere di net art in ambienti corrispondenti all’epoca della creazione delle opere. Questo tipo di esperienza contestualizzata di un utente era stata precedentemente disponibile solo in mostre fisiche (ad esempio, usando hardware vecchio o adattato), ma non in un ambiente online. Quindi, in questo senso, credo che la mostra NAA stesse pilotando un nuovo tipo d’interazione con la net art. 

Naturalmente ci sono molti esempi eccellenti di opere d’arte in rete, o progetti di artisti che coinvolgono ed evolvono attraverso molteplici opere (o variazioni di opere), che sovvertono le aspettative degli utenti su ciò che dovremmo fare quando incontriamo l’arte online (molti di questi sono infatti presenti nel NAA). Ho tratto ispirazione da questi progetti per sviluppare il mio pensiero sulle interfacce al di là delle metafore delle finestre o degli schermi trasparenti. Ma in termini di design specifico e modelli d’interazione, la mia ricerca si è concentrata principalmente su esempi istituzionali di archivi e collezioni online, e quelli che ho trovato raramente, se non mai, hanno provato a mettere in discussione le tradizioni.

M.G.: Dopo i tempi esplorativi del primo web, seguiti dalla socialità del web 2.0 e dalle sue interfacce più intuitive, ora navighiamo in un paesaggio digitale abbastanza diverso. L’ambiente online è oggi spesso costituito da mondi auto-contenuti, orientati al commercio e al prodotto, che dettano in modo più rigido i comportamenti degli utenti. Come pensi stia cambiando il nostro rapporto con le interfacce?

L.R.:  Sì, i giardini recintati delle app e altre delizie nel cloud! In vari modi, penso che quello che abbiamo oggi sia la continuazione logica di un paradigma informatico che è stato sviluppato nei laboratori delle prime aziende della Silicon Valley già negli anni ’60 e ’70. Vorrei introdurre qui il concetto di trasparenza, perché gioca un ruolo centrale nella mia ricerca, e perché penso che sia centrale per la questione del nostro rapporto con le interfacce e ciò che potrebbe diventare.

Nel campo dell’interazione uomo-computer (HCI), la trasparenza è stata tradizionalmente concepita come una condizione necessaria per una buona interfaccia, una che riduce la complessità visiva al fine di favorire un’esperienza d’interazione semplice [user-friendly] per l’utente. Trasparenza significa che l’interfaccia, l’infrastruttura software e hardware ad essa associata, e tutte le decisioni che definiscono tale infrastruttura, dovrebbero rimanere invisibili, in modo che l’utente dell’interfaccia possa concentrarsi solo sul compito da svolgere: scrivere un documento, guardare un video, ecc. Ciò può sembrare contraddittorio, dal momento che tipicamente associamo la trasparenza con il rendere le cose più visibili, aperte al controllo, e così via, specialmente per quanto riguarda, ad esempio, la regolamentazione. Tuttavia, dal punto di vista del design d’interfaccia, più un’interfaccia appare “trasparente” ai suoi utenti, più l’infrastruttura sottostante è resa opaca.

In Reading Writing Interfaces (un testo che consiglio vivamente), Lori Emerson ripercorre la storia del paradigma dell’interfaccia trasparente fino alla nozione di informatica onnipresente [ubiquitous computing] — un primo modello informatico che immaginava il futuro delle interfacce nascoste nei muri e nei mobili da ufficio — onnipresenti, ma invisibili, trasparenti. La premessa è che questa interfaccia e questa infrastruttura sono costrutti puramente “tecnici”: privi di valore e neutrali; e quindi, non degni di essere visibili. Naturalmente, questa presunta neutralità è un’illusione, che è stata eloquentemente smontata da molti studiosi di critica dei media e artisti di rete. Eppure penso che, con ogni decennio di sviluppi informatici, questa insistenza sulla trasparenza, sul nascondere l’infrastruttura — sia con parole in voga (il cloud), sia con accessori alla moda (wearable tech), se non proprio con i mobili da ufficio — resiste e diventa ancora più perniciosa (si veda l’eccellente serie di saggi di Olia Lialina che inizia con Turing Complete User). 

Questa è una lunga deviazione, ma riflettere sul concetto di trasparenza e la sua relazione con l’ideologia user-friendly è essenziale per capire il mondo dell’industria, così come lo sviluppo del design dei prodotti digitali oggi. La trasparenza ha il suo posto nel design d’interfaccia — un certo livello d’astrazione è utile, poiché gli utenti non hanno sempre bisogno di conoscere ogni singola operazione che un computer esegue per usare una particolare interfaccia grafica [GUI]. Ma una cieca rincorsa alla trasparenza (sia perché l’offuscamento fa parte della strategia commerciale ufficiale, sia perché riutilizzare la struttura del material design di Google, per esempio, è facile e fa risparmiare tempo alle aziende di prodotti più piccole) porta a modelli d’interazione estremamente formulaici e limitati per gli utenti finali. Anche se possiamo ancora celebrare l’ingegnosità dei giovani nel muoversi entro i limiti di app come Instagram o TikTok con risultati altamente creativi, ultimamente è apparsa una tendenza interessante nella mia rete sociale: gli educatori universitari sono alle prese con nuovi studenti che non capiscono i principi base dei file e cartelle del computer. Il sistema di file e cartelle dei computer da tavolo è esso stesso un livello d’astrazione che rende l’interfacciarsi con il computer più “user-friendly“.  Ma in esso è almeno ancora presente una certa connessione alla materialità — a dei bit e dei byte che hanno una sorta di memoria permanente, con un’ infrastruttura fisica concreta. Con lo spostamento su applicazioni su dispositivi mobili, o anche su applicazioni che operano via browser utilizzando i dati in modalità trasparenti (cioè modalità che non vediamo a meno che non scaviamo negli strumenti dell’ispettore e abbiamo una buona comprensione delle infrastrutture del server), le interazioni dell’utente avvengono a livelli sempre più alti di astrazione. Questa astrazione può impedire agli utenti di esercitare un controllo sul modo in cui i prodotti online funzionano utilizzando i nostri dati. Mescolati alle interazioni personali, questi dati si estendono oggi a molto più che semplici documenti d’ufficio in file e cartelle. Così, paradossalmente, mentre le nostre relazioni con le interfacce diventano sempre più personali, noi (collettivamente), come utenti, diventiamo sempre più distaccati, intenzionalmente tenuti a distanza, dalle attività di queste interfacce.

M.G.: Cosa significa per te oggigiorno sovvertire delle interfacce già date? 

L.R.: Al giorno d’oggi penso che sovvertire le interfacce significhi che gli utenti possano esercitare il diritto d’azione nelle loro interazioni con il flusso d’informazioni in rete. E lo fanno — anche se non hanno controllo su come le società estraggono, immagazzinano, vendono e in generale operano utilizzando i loro dati personali — gli utenti possono attivamente sabotare questo processo attraverso azioni fuorvianti compiute di proposito. Il più delle volte questo lo vediamo messo in atto da artisti nella cornice di una performance (ad esempio la performance Operation Earnest Voice di Jonas Lund  che ha trasformato la Photographers’ Gallery di Londra in una “agenzia di condizionamento” per portare la propaganda dei media al “rovesciamento della Brexit”), ma è anche stato fatto da gruppi civili attraverso azioni coordinate (ad esempio, tra altre forme di disobbedienza creativa e collettiva online, i fan del K-pop che inondano Twitter per dissipare gli hashtag razzisti). Per quanto trovi questo tipo di azioni stimolanti e degne di nota, come designer d’interfacce non posso fare a meno che volere di più — più capacità da parte degli utenti di agire direttamente nel design dell’interfaccia e nell’infrastruttura sottostante. 

Ecco perché sono interessata a studiare la trasparenza delle interfacce, voglio progettare un’altra forma d’interfaccia; non necessariamente delle interfacce volutamente difficili, o user-unfriendly [ostili all’utente], ma piuttosto delle interfacce che agiscono più come specchi, e non come finestre — specchi che riflettono il contesto socio-tecnico del prodotto informatico e del suo utente (come concettualizzato da Jay Bolder e Diane Gromala nel loro testo Windows and Mirrors). E naturalmente, per fare un esempio concreto, posso attingere al mio lavoro con interfacce per archivi e collezioni digitali. Con la ri-progettazione dell’ArtBase di Rhizome, abbiamo scelto di utilizzare un’infrastruttura di supporto che struttura i dati secondo i principi dei linked open data [dati aperti collegati]. Questo è molto diverso dalla gran parte dei database tradizionali che strutturano i dati in modi molto prescritti. Con i linked open data, abbiamo la possibilità di sviluppare un’ontologia di classificazione intorno a opere d’arte, software, artisti e organizzazioni che non è fissa, ma può crescere organicamente: allo stesso tempo tenendo conto di tutte le variazioni precedenti dello schema organizzativo dell’archivio, e permettendo l’aggiunta di nuove forme di classificazione. C’è anche il controllo delle versioni e l’opzione per la tracciabilità di provenienza. Queste non sono solo funzionalità di supporto, ma aspetti della struttura dei dati che possono essere resi visibili agli utenti anche nell’interfaccia di frontend. E questo è ciò che il nuovo ArtBase mira a fare. Invece di appiattire l’incontro dell’utente con l’opera a una singola versione canonica e a un insieme di campi di metadati statici, gli utenti possono accedere a più versioni dell’opera d’arte che operano a vari gradi di funzionalità; possono accedere a descrizioni di metadati e narrazioni contestuali così come alle fonti di tali descrizioni e narrazioni. Possono cliccare sui campi di metadati e leggere di più sulla scelta della terminologia o sulla classificazione. Tutto questo potenziale aggiunto d’interazione rende certamente l’interfaccia meno “trasparente”. Ma invece di parlare in termini di ciò che è o non è user-friendly, penso che sia più proficuo parlare del fatto che questa interfaccia riesca nel suo tentativo di invitare gli utenti a entrare in una conversazione, a soffermarsi e a passare del tempo con le informazioni e i media ipertestuali che sono resi attraverso i loro browser. La nuova interfaccia di ArtBase non è affatto perfetta, o perfettamente riuscita nei suoi obiettivi, ma mi piace pensare che, con il continuo impegno della comunità e l’ulteriore sviluppo del design, possa essere un modello per quello che Johanna Drucker chiama il design d’interfaccia umanistico. Un tale modello attingerebbe alla teoria critica delle scienze umane, in aggiunta e come arricchimento dei metodi tradizionali del HCI, al fine di sostenere l’atto di interagire con un’interfaccia come un atto d’interpretazione, come opportunità d’inserirsi in un discorso, e anche di esercitare un’attività critica.  E su questa nota, vorrei concludere con una citazione dal saggio di Drucker sulla Performative materiality:

“Gli oggetti esistono nel mondo, ma il loro significato e valore sono il risultato di un atto performativo d’interpretazione che è provocato dalle loro qualità specifiche. Dire ciò è semplicemente ricordare a noi stessi quello che già sappiamo: per comprendere gli oggetti digitali e per progettarli abbiamo bisogno di recuperare il filone della teoria critica che ha trasformato le scienze umane dallo strutturalismo in poi.” (Johanna Drucker, 2013)

M.G.: In particolare durante la pandemia del Covid-19, abbiamo assistito a una tendenza a replicare l’esperienza della fruizione dell’arte in isolamento, instillando un senso di contemplazione senza interferenze dal mondo esterno. Questo ha dato forma a stanze di visualizzazione, stanze 3D, spazi navigabili pieni di suoni. L’ho trovato piuttosto strano dato che ci sono molti esempi ‘storici’ di design d’interfaccia che rispondono in modo specifico alla varietà del coinvolgimento del pubblico online. Qual è stata la tua esperienza?

L.R.: Ad essere onesta, durante il picco della pandemia penso di essere entrata nella stanchezza collettiva da zoom e non ho avuto la pazienza di dedicarmi molto alle offerte delle istituzioni d’arte tradizionali. È curioso che parli del fatto che c’è stata una tendenza verso un’esperienza isolata, probabilmente è un aspetto che mi è sfuggito. Ripensando al 2020, ci sono state forse tre o quattro mostre d’arte online che mi sono rimaste davvero impresse, ed è interessante notare che tutte avevano una qualche forma di ‘socialità’, cioè si sperimentava lo spazio anche in relazione ad altri. Un esempio è stata la nuova piattaforma online della Upstream Gallery di Amsterdam, che ha riunito artisti di net art di diverse generazioni e ha ospitato grandi inaugurazioni online e visite guidate in cui si poteva vedere e interagire con altri spettatori. Ricordo anche il programma/piattaforma online Pohflepp in Practice: Revisiting the work and world of artist & designer Sascha Pohflepp ospitato da HKW a Berlino, che operava su un software open source sviluppato da Trust Berlin. Aveva anche un esplicito svolgimento temporale (con eventi dal vivo) e offriva la sensazione di essere nello spazio insieme agli altri. In entrambi i casi, il design dell’interfaccia ha giocato un ruolo importante nell’esperienza generale degli eventi, e mentre supportava le opere d’arte/gli eventi dal vivo in modo appropriato, rifiutava di essere solo una non-entità vuota, come un white cube virtuale. Al contrario, l’estetica distintiva dell’interfaccia è ciò che ha reso questi spazi virtuali più memorabili e coinvolgenti per me, come membro del pubblico. 

M.G.: Quale ruolo possono avere il design e gli studi d’interfaccia nel web di oggi rispetto alla produzione artistica e curatoriale?

L.R.: Come dimostrano gli esempi che ho appena citato, il design d’interfaccia gioca un ruolo significativo nella presentazione di opere individuali online, così come quella di progetti curatoriali collettivi. Abbiamo visto mostre di net art realizzate sia per spazi online che offline per diversi decenni ormai, ma dato che sempre più lavoro viene creato con l’esplicita intenzione di essere mostrato online (sia per ragioni legate a COVID, sia in risposta al crescente mercato commerciale di opere digitali), c’è bisogno di pensare a nuove forme di presentazione che tengano conto di ciò che le reti a banda larga, le potenti schede grafiche e gli schermi ad alta risoluzione offrono che non era tecnicamente fattibile 15, o anche solo 5 anni fa. Ma voglio anche porre la questione di quanto queste “nuove” possibilità siano equamente distribuite, o no; e quale potrebbe essere il ruolo, o i potenziali compromessi, delle alternative al modello alta velocità/alta risoluzione, come per esempio il movimento per il “minimal computing”, e il consumo energetico vis-à-vis. Queste possono sembrare questioni d’infrastruttura, ma il design d’interfaccia è sempre stato strettamente connesso all’infrastruttura, anche se le questioni estetiche (ad esempio, che sia minimalista o skeuomorfo; che sia piatto o multidimensionale) tendono a dominare le conversazioni quando si parla di design. Quindi, pensando a queste interdipendenze interfaccia-infrastruttura, pur tenendo presente il pericolo costante dell’obsolescenza, credo che il lavoro artistico e curatoriale dovrebbe essere basato su scelte consapevoli che comprendono il considerare in che modo le opere possono essere presentate e contestualizzate online, ma anche come possono essere conservate e archiviate al di fuori del contesto della mostra temporanea online. E data questa storia pluridecennale della produzione e dell’esposizione della net art, sia gli artisti che i curatori possono guardare indietro ai momenti chiave dello sviluppo storico delle interfacce e riconoscere i modelli che si ripetono nel tempo (spinti dai cicli della moda), al fine di fare scelte consapevoli sullo sviluppo di nuovi lavori o nuove mostre che mirano a far evolvere il dibattito, piuttosto che perpetuare i vecchi dibattiti.  Naturalmente questa capacità di “guardare indietro” presuppone l’esistenza di fonti e archivi affidabili. E qui vorrei di nuovamente indicare l’ArtBase, perché oltre a un archivio di net art, è anche un prezioso archivio dell’evoluzione della pratica del design d’interfaccia. Molte delle opere presenti nell’ArtBase si confrontano in modi diversi con le interfacce contemporanee, sia per criticarle che per sfruttarne la struttura e il design a scopo creativo. Così vedo anche il ruolo del nuovo ArtBase non solo come un modello di design, ma come uno strumento di ricerca che può ispirare lo sviluppo di futuri paradigmi di design di interfaccia.

Sono anche curiosa di ribaltare questa domanda e pensare a ciò che gli studi d’interfaccia possono imparare dalla produzione artistica e curatoriale. Prendiamo un esempio concreto. Questo probabilmente limiterà la mia risposta a un contesto molto ristretto, ma nelle ultime settimane (o anni, se si conta la gestazione) abbiamo sentito molto spesso parlare del termine “meta(verse)“. La trattazione completa di questo tema è al di là dello scopo della nostra conversazione di oggi, quindi parlerò solo di un fenomeno che ho osservato emergere abbastanza rapidamente nella mia bolla di Twitter. Molte persone con un bagaglio di esperienze nell’arte, nella curatela e nei campi accademici correlati, hanno sollevato esempi significativi degli ultimi tre decenni e più, e hanno fatto capire che questo “nuovo” modo d’interfacciarsi con i computer non è poi così nuovo, ed è stato infatti oggetto sia di flop commerciali che di una produzione artistica profondamente fantasiosa e ispiratrice. Analizzare perché le cose hanno fallito o cosa ha reso certi progetti artistici attraenti, potrebbe illuminare il modo in cui i designer pensano alle interfacce e prendono decisioni future per quanto riguarda cosa progettare o non, a quali scopi e come. Potrei dire di più, ma credo che concluderò qui. 

Grazie mille per avermi dato lo spazio per riflettere su queste domande interessanti e importanti per la piattaforma Curating Online!

**BIO:
Lozana Rossenova è una ricercatrice di scienze umane digitali e designer che vive a Berlino. Nel 2021 ha completato il suo dottorato di ricerca alla London South Bank University, in collaborazione con Rhizome, lavorando sulla ri-progettazione dell’archivio di net art ArtBase. Il suo lavoro si focalizza sugli approcci open-source e community-driven alle infrastrutture digitali che organizzano, archiviano e rendono accessibile il sapere e diversi modi di conoscere.